29.
«Allah ci aiuti!» mormorò l'autista di Ismail. «Sono pazzi! Non possiamo fermarli.»
«Inseguili!» gridò istericamente Ismail. «Non lasciarteli scappare!»
«Tanto moriranno comunque. Nessuno può sopravvivere a bordo di una macchina incontrollabile lanciata giù per una montagna.»
Ismail si mosse di scatto e puntò la canna dell'arma contro l'orecchio dell'autista. «Prendi quei porci!» ringhiò. «O vedrai Allah prima di quanto credi.»
L'autista esitò. Pensava che la morte era sicura, qualunque cosa facesse. Poi si arrese e girò la Mercedes per seguire la Cord giù per la discesa.
«Allah guidi le mie azioni», mormorò in preda alla paura.
Ismail abbassò l'arma e indicò oltre il parabrezza sfondato. «Stai zitto e pensa a guidare.»
I compagni di Ismail a bordo della seconda Mercedes non si fermarono. Seguirono doverosamente il capo.
La Cord sfrecciava sulla neve compatta come un treno merci impazzito, e accelerava paurosamente. Era impossibile farla rallentare. Pitt guidava con un tocco leggero e sfiorava appena i freni, attento a non bloccarli per non lanciare la macchina in un incontrollabile testacoda.
Se fosse scivolata di sbieco giù per il pendio ripido, avrebbe finito per cappottare e piombare alla base della montagna in una scia di frammenti di metallo e di corpi straziati.
«Non ti sembra il momento di parlare delle cinture di sicurezza?» chiese Giordino, che teneva i piedi sollevati e puntellati contro il cruscotto.
Pitt scosse la testa. «Nel 1930 gli optional non esistevano.»
Ebbe l'improvvisa sensazione che la fortuna lo assistesse quando il pneumatico crivellato dai proiettili si staccò dalla ruota posteriore.
Liberato dalla gomma, il doppio orlo del cerchione gli assicurava un certo controllo perché affondava nella superficie gelata e faceva schizzare particelle di ghiaccio.
Il tachimetro indicava cento chilometri all'ora quando Pitt vide che si stavano avvicinando a una distesa di minuscoli rialzi. Gli sciatori esperti li giudicavano un interessante percorso a ostacoli: e la pensava così anche Pitt quando affrontava una pista a tutta velocità.
Ma adesso stava piombando verso valle a bordo di un'automobile che pesava duemilacentoventi chili.
Con un abile tocco leggero portò la macchina sul lato della pista, dove il fondo era più liscio. Aveva l'impressione di cercare d'infilare un ago con un bob da competizione. Si tese inconsciamente per affrontare l'urto violento che sarebbe stato immancabile se avesse compiuto un movimento sbagliato, e che avrebbe scagliato la macchina contro un albero sfracellando tutti coloro che si trovavano a bordo.
Ma l'impatto non ci fu. Chissà come, la Cord saettò attraverso lo stretto varco, fra i rialzi da una parte e gli alberi dall'altra che passavano loro accanto come una scena confusa.
L'autista della prima Mercedes era abile. Aveva seguito le tracce delle ruote della Cord intorno ai rialzi. L'autista della seconda non li vide o non li considerò pericolosi. Si rese conto troppo tardi dell'errore e lo aggravò lanciando all'impazzata la Mercedes da una parte all'altra nel tentativo disperato di evitare le gobbe alte un metro.
L'arabo riuscì a evitarne tre o quattro prima di cozzare a capofitto. Il muso della macchina affondò, la coda si sollevò e restò immobile a un angolo di novanta gradi. Rimase così per un istante, poi si capovolse come un bastoncello rovesciato da un bambino. Urtò di nuovo contro la neve compatta, più volte, con un fragore di metallo e di vetri schiantati.
Gli occupanti sarebbero sopravvissuti se fossero stati sbalzati fuori, ma la serie di impatti violenti aveva bloccato le portiere. La macchina cominciò a disintegrarsi. Il motore si staccò e rotolò verso il bosco.
Le ruote, le sospensioni anteriori, il treno posteriore non erano stati costruiti per resistere a quella tortura devastante. I pezzi si staccarono dallo chassis e ruzzolarono all'impazzata verso valle.
Pitt non ebbe il tempo di osservare la Mercedes che roteava e si accartocciava in un mucchio irriconoscibile prima di finire capovolta in un burroncello.
«Sembrerei scortese», disse Giordino, che parlava per la prima volta da quando aveva superato la cresta, «se dicessi: uno di meno?»
«Stai zitto, per scaramanzia», borbottò Pitt a denti stretti. «Guarda!» Staccò una mano dal volante e indicò.
Giordino si tese nel vedere la pista che si biforcava e si univa a un'altra brulicante di gente dalle coloratissime tenute da sci. Si alzò di scatto aggrappandosi a quel che restava del parabrezza, gridò e agitò freneticamente le braccia mentre Pitt suonava i due clacson della Cord.
Sbalorditi, gli sciatori si voltarono e videro le due macchine che scendevano lanciatissime la pista. Si spostarono appena in tempo e restarono a guardare a bocca aperta mente la Cord passava oltre, inseguita dalla Mercedes.
Sulla pista si ergeva un trampolino. Pitt ebbe appena il tempo di distinguere la rampa che si confondeva con il fianco della collina.
Senza esitare, puntò in quella direzione.
«Non vorrai...?» balbettò Giordino.
«Piano quattro», rispose Pitt. «Tieniti forte. Può darsi che perda il controllo.»
«Mi pareva che l'avessi già perso.»
Il trampolino, molto più piccolo di quelli costruiti per le gare olimpiche, veniva usato soltanto per le esibizioni acrobatiche. La rampa era abbastanza ampia per far passare la Cord con un buon margine.
Si estendeva per trenta metri in una curva concava prima di finire bruscamente a un'altezza di venti metri dal terreno.
Pitt puntò verso la linea delle partenze, e sfruttò la larghezza della carrozzeria della Cord per nascondere il trampolino alla vista degli occupanti della Mercedes.
All'ultimo istante, prima che le ruote anteriori varcassero la linea di partenza, Pitt sterzò e mandò la Cord in testacoda, allontanandola dalla rampa discendente del trampolino. L'autista di Ismail, che seguiva con attenzione ogni suo movimento, sterzò per evitare una collisione, e superò la linea.
Mentre Pitt riportava faticosamente la macchina su un percorso diritto, Giordino si voltò a guardare la Mercedes e scorse una faccia contratta in una strana espressione di rabbia e di paura. Poi la faccia sparì quando la macchina dei terroristi sfrecciò giù per il pendio, ormai incontrollabile. Avrebbe dovuto spiccare un balzo nel cielo come un grosso uccello privo d'ali. Ma l'estremità posteriore scivolò, posò le ruote di destra fuori del bordo del trampolino pochi metri prima dell'orlo, e la macchina volò a spirale nell'aria come un pallone da football ben lanciato.
La Mercedes doveva sfiorare i centoventi chilometri orari quando decollò.
Spinta dalla tremenda forza d'inerzia, roteò nel cielo per una distanza incredibile prima di curvare verso destra e piombare nella neve compatta sulle quattro ruote con un impatto violentissimo. Come se proseguisse al rallentatore, rimbalzò e sfrecciò contro un alto pino ponderoso, fracassandosi contro il tronco. Lo stridore lacerante del metallo dilaniato riempì l'aria rarefatta mentre lo chassis e la carrozzeria si accartocciavano intorno all'albero e il paraurti anteriore e quello posteriore s'incontravano come le estremità di un ferro di cavallo lanciato contro un paletto di acciaio. I vetri esplosero come una pioggia di coriandoli, e i passeggeri vennero spiaccicati come mosche.
Giordino scosse la testa, meravigliato. «È lo spettacolo più incredibile che abbia mai visto.»
«E ne vedremo altri», disse Pitt. Era riuscito a raddrizzare la Cord ma non a ridurne la velocità. I freni s'erano bruciati a metà del pendio e la barra del volante era storta. Il percorso era inequivocabile. La Cord stava puntando verso la stazione e il ristorante della seggiovia.
Pitt non poteva far altro che suonare il clacson e cercare di evitare gli sciatori troppo allibiti per mettersi al riparo.
Le due donne avevano assistito alla distruzione della seconda Mercedes con curiosità morbosa e immenso sollievo. Ma il sollievo durò poco. Si voltarono e sgranarono gli occhi nel vedere che si stavano avvicinando fulmineamente a una costruzione.
«Non possiamo fare qualcosa? chiese Hala. «Accetto qualunque suggerimento», ribatté Pitt. Poi ammutolì nel tentativo di evitare un gruppo di ragazzini d'una scuola di sci: piombò sopra un banco di neve e li aggirò. Quasi tutti gli sciatori avevano visto o sentito la fine della Mercedes ed erano galvanizzati dal comportamento della Cord. Si affrettarono a portarsi sui bordi della pista e rimasero a guardare, senza capire, la macchina che passava fra loro come un razzo.
Dalla stazione superiore della seggiovia qualcuno aveva segnalato la discesa dei veicoli impazziti e gli istruttori avevano fatto allontanare gran parte della folla. Sulla destra del centro sciistico c'era un laghetto ghiacciato e poco profondo. Pitt sperava di poter tagliare in quella direzione e di piombare sul ghiaccio che si sarebbe spaccato e avrebbe sommerso la macchina fino ai predellini costringendola a fermarsi. L'unico problema era che i curiosi avevano formato involontariamente un corridoio che portava verso il ristorante.
«Immagino che non ci sarà un piano cinque», disse Giordino, mentre si puntellava per affrontare la collisione.
«Mi dispiace, abbiamo esaurito i piani», disse Pitt.
Lily e Hala assistevano, impotenti e inorridite. S'erano acquattate dietro il divisorio e si tenevano abbracciate.
Pitt s'irrigidì mentre la macchina investiva una serie di rastrelliere che contenevano sci e bastoncini. Gli sci parvero esplodere e volarono in aria come stuzzicadenti. Per un istante sembrò che seppellissero la Cord; ma subito questa schizzò via e salì la scalinata di cemento, mancò il ristorante ma sfondò la parete di legno della cocktail lounge.
La sala era stata vuotata, e c'erano soltanto il pianista, che sedeva paralizzato davanti alla tastiera, e il barista, che preferì rifugiarsi freneticamente dietro il banco nel momento in cui la Cord faceva il suo ingresso esplosivo e avanzava come un bulldozer in un mare di sedie e di tavolini.
Per poco non arrivò a sfondare la parete di fondo e a precipitare dall'altezza del secondo piano. Miracolosamente, dopo aver esaurito lo slancio, la macchina mutilata si arrestò con il paraurti anteriore distorto che sporgeva all'esterno. La cocktail lounge sembrava aver subito un bombardamento d'artiglieria.
Il salone era pervaso da uno strano silenzio, rotto soltanto dal sibilo del radiatore e dallo scoppiettio del motore surriscaldato. Pitt aveva battuto la testa contro l'intelaiatura del parabrezza; il sangue gli sgorgava da un taglio al di sopra dell'attaccatura dei capelli e gli inondava la faccia. Si voltò a guardare Giordino che fissava impietrito la parete. Poi si girò verso le donne. Avevano l'aria di chiedersi se erano ancora vive, ma tutto sommato non erano malconce.
Il barista era ancora acquattato dietro il banco, e perciò Pitt si rivolse al pianista che sembrava in trance sullo sgabello a tre gambe. Aveva in testa una bombetta, e la sigaretta che gli penzolava dall'angolo della bocca non aveva neppure perduto la cenere. Le mani erano protese sopra i tasti, il corpo irrigidito come se fosse in uno stato di animazione sospesa. Fissò sconvolto l'apparizione insanguinata che stava sorridendo.
«Mi scusi», disse educatamente Pitt, «potrebbe suonare Fly me to the Moon?»